Seleziona una pagina
Consulenza aziendale: breve guida per imprenditori

Consulenza aziendale: breve guida per imprenditori

La tua azienda ha più di 20 anni?

Hai difficoltà a trovare nuovi clienti nonostante ti sembri di passare tutte le ore lavorative sui social media?

Pensi che i tuoi collaboratori potrebbero lavorare in maniera più efficace ma non sai come organizzarli?

C’è un clima pesante e poco collaborativo?

Pensi che rivolgersi ad una società di consulenza siano soldi buttati? In fondo il commercialista è il mio migliore amico ed è esperto di tutto, no?

Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande, congratulazioni, sei nella stessa situazione di migliaia di altre imprese italiane. Ma non preoccuparti, se sei disposto a metterti in gioco, c’è ancora speranza di salvare la tua azienda!

Molti imprenditori, soprattutto quelli che non hanno avuto una formazione manageriale ma hanno appreso sul campo (con lacrime e sangue, direbbe mio padre), sono altamente resistenti all’idea di avere degli sconosciuti all’interno della loro azienda ad evidenziare i propri errori di gestione.

Eppure la crescente complessità del mondo in cui viviamo pone sempre nuove sfide e pochi sono attrezzati per fronteggiarle: tecnologie sempre più impegnative, modelli gerarchici in crisi, internazionalizzazione, apertura di nuovi mercati, emersione e scomparsa di bisogni da parte dei consumatori, difficoltà nel reperire finanziamenti, solo per citarne alcuni.

Ti dirò di più, nessun cambiamento in azienda può avvenire senza un forte sostegno di tutto il management team che non sia però solo a parole, ma calato nella realtà operativa. Perché se è facile dire “io promuovo questo progetto”, la vera prova è nella quotidianità, quando si deve decidere quale dipendente distogliere dalle sue abituali mansioni per impiegarlo, a discapito di queste ultime, in tale ruolo. 

E qui sta il dilemma: dare priorità ai progetti preesistenti che fanno cassa o ai cambiamenti di medio e lungo termine per i quali i benefici saranno visibili – se ci saranno – solo mesi se non anni dopo l’investimento iniziale?

Ti dò un indizio: nel business non esistono una risposta giusta e una sbagliata, perché il processo decisionale prende in considerazione diversi fattori, la maggior parte dei quali non è nemmeno influenzabile da noi. Quello che però posso affermare con certezza è che chi si ferma è perduto. 

Se non sei ancora convinto della necessità di agire ora, leggi cosa è successo a Marco (nome di fantasia, per la tutela della privacy), un imprenditore come te, che aveva riscontrato dei problemi di scarsa performance e spese incontrollabili in azienda ma non riusciva a trovarne le cause.

Marco ha una media impresa, fondata 15 anni fa, con circa 50 dipendenti, di cui un terzo impiegati e i due terzi operai. Nell’ultimo anno, con l’ingresso di un paio di nuovi collaboratori il flusso di lavoro che prima sembrava scorrere senza particolari difficoltà si blocca inaspettatamente, se ci sono problemi non vengono affrontati sul nascere ma nascosti, gli acquisti sono spesso fuori budget o gli ordini sono effettuati senza prima avere tutte le autorizzazioni necessarie. Ma cosa è successo? Eppure Marco ha assunto nuove persone con l’intento di alleggerire e ridistribuire il carico di lavoro ed essere più efficienti!  

Ti ritrovi nella situazione di Marco? Ti stai chiedendo cosa è successo? 

Marco purtroppo è incappato in un errore di “ingenuità”: ha inserito due nuovi dipendenti in un ambiente non formalizzato pensando che si sarebbero integrati senza necessità di nessun intervento da parte sua. Ma non solo. Analizzando i processi ci siamo accorti che il livello di digitalizzazione è basso, sono in uso il pacchetto Office e un gestionale sviluppato su misura da un informatico, che deve intervenire ogni volta ci siano errori da parte degli utenti. Le interfacce della contabilità, acquisti e magazzino non comunicano tra di loro e il lavoro manuale richiesto per sincronizzarle è elevato. Parlando con il personale emergono una profonda insoddisfazione, poca collaborazione e una comunicazione assente. Non ci sono job description e procedure da seguire. I dipendenti sono entrati senza un ruolo ben definito negli anni precedenti e nel tempo si sono occupati un po’ di tutto al bisogno, con difficoltà di definire le responsabilità. Questo ha portato a sovrapposizioni, duplicazioni o in casi estremi all’avere attività orfane perché di competenza di nessuno. 

Vuoi sapere come Marco ha risolto i suoi problemi? 

Marco ha capito che da solo non sarebbe riuscito a farcela perché non poteva seguire sia il business sia la riorganizzazione aziendale. Inoltre il fatto di essere “dentro” all’azienda non gli avrebbe permesso di essere obiettivo ed efficace. Tuttavia sapeva che doveva agire quanto prima per evitare che la situazione diventasse esplosiva in ufficio. 

L’approccio sistemico richiesto per affrontare tutto ciò prevede una serie di competenze che non è facile reperire sul mercato, tantomeno pensare che basti qualche corso di formazione generico (nei pochi casi in cui vengono seguiti) per portare i dipendenti ad un livello minimo tale da poter riconoscere le difficoltà del business e trovare soluzioni idonee e su misura.

Un serio ostacolo nei grandi cambiamenti aziendali è proprio il fatto di essere parte dell’organizzazione: quando si è inseriti in una gerarchia, indifferentemente dal livello, agire come elemento del cambiamento vorrebbe dire svincolarsi da tali legami e assumere poteri che non sono quelli della posizione originale. Come tutti i dipendenti sanno bene, si tratta di pura utopia. 

Una serie di colloqui e interviste ci ha permesso di identificare i bisogni (espressi e non), di raccogliere le richieste del management e definire quali aree fossero critiche. Abbiamo poi preparato un report as is / to be, dove abbiamo confrontato la situazione attuale con quella ideale futura. 

A Marco abbiamo consigliato di lavorare su più aree:

  • Organizzazione, con la mappatura dei flussi di lavoro e delle procedure
  • Risorse Umane, con il disegno di un organigramma, job descriptions e ruoli
  • Tecnologia, con l’inserimento di ERP a sostituzione del vecchio gestionale presente e per le aree non ancora coperte
  • Formazione, con la creazione di corsi ad hoc per le necessità aziendali
  • Relazione, con il counseling aziendale ed il coaching
  • Comunicazione, con l’inserimento di strumenti collaborativi

D’accordo con Marco abbiamo steso un piano d’azione per il quale abbiamo agito come project manager, coordinando gli altri fornitori nel rispetto degli obiettivi strategici identificati. C’è stata una forte resistenza iniziale da parte dei dipendenti, ma avendo considerato in anticipo le azioni necessarie di change management dopo soli tre mesi Marco ha potuto vedere i primi risultati di performance e finanziari. Quando si avvia un processo di cambiamento profondo bisogna considerare che mentre alcune attività hanno una durata definita e pianificabile, altre sono attività di miglioramento continuativo o che devono essere ripetute con una certa frequenza.  

Selvaggia Fagioli

Se come Marco anche tu vuoi fare qualcosa per cambiare la tua situazione, iscriviti alla nostra newsletter per essere aggiornato sulle prossime uscite del blog e sulle nostre attività.

Abbiamo pensato ad una serie di post nei quali affronteremo alcune tecniche di strategia e ti forniremo consigli pratici su come applicarli efficacemente in azienda. Ma non solo, per tutti coloro che hanno un’idea o una startup, ci saranno consigli utili nati dalla nostra esperienza diretta. 

Negli articoli successivi affronteremo i seguenti argomenti:

  • Business Model
  • Analisi di mercato
  • Analisi della competizione
  • Analisi interna
  • Strategie ICT per aumentare la competitività
  • Strategie di promozione e scelta dei canali di vendita
  • Il processo di idea e sviluppo lean
  • La comunicazione efficace mediante il processo di counseling aziendale
  • Opportunità di internazionalizzazione
  • E tanti altri!
Il podcast voce del tuo brand

Il podcast voce del tuo brand

All’evento di venerdì al Cult di Perugia dedicato al podcast nella comunicazione aziendale Giada Cipolletta e Carlos Bellini ci hanno raccontato la loro esperienza con il podcast in Italia e come questo canale funzioni per chi voglia fare business. Un media di cui alcuni partecipanti avevano già esperienza di ascolto, mentre altri erano totalmente digiuni. Il termine nasce come contrazione da pod (forse da Ipod) e [broad]cast (trasmettere). Si tratta quindi di una trasmissione audio simile a quella della radio che però non avviene in diretta. Nasce nel 2004 negli USA e molte testate giornalistiche hanno approfittato della sua comodità nella diffusione di notizie durante il pendolarismo quotidiano. Dall’informazione si è passato all’intrattenimento fino ai veri e propri sceneggiati. La community italiana dei podcaster invece è ancora indietro rispetto allo scenario americano, ed è proprio questo il momento di approfittarne, prima che il mercato si saturi.

La diffusione dei podcast è agevolata anche dagli smart speakers: Le funzioni di interazione e ricerca vocale di Echo di Amazon o Google Home rendono spontaneo richiedere trasmissioni audio. Il vantaggio è che non essendoci un video da seguire, si possono ascoltare anche mentre si lavora da casa, si sbrigano faccende domestiche oppure si è in auto o sui mezzi pubblici. La ricerca vocale sta prendendo sempre più piede, la voce sta prendendo centralità anche nella vita quotidiana. Pensate ad Amazon Audible: il libro non si legge più ma si ascolta. Il podcast inoltre può essere fruito da chi si trova a disagio nella lettura come anziani oppure vive difficoltà nell’apprendimento tramite la carta stampata. Una nuova e ricca vena è quella delle favole da bambini: in fondo cos’è il podcast se non un racconto?

Venendo all’ambito di nostro più stretto interesse, l’azienda può usarlo per fare training sia per il personale interno che per i clienti. Altro esempio pratico ce l’ha dato uno degli ospiti in sala, ci ha confidato che preparerà dei podcast per formare la forza vendite sui loro prodotti e che li condividerà tramite il loro canale Telegram. 

La durata è un tema relativo: varia a seconda del tema e della capacità di intrattenere di ciascuno di noi. Si va dai dieci minuti a podcast di un’ora e mezzo. Molti podcast sono sul modello dell’intervista al personaggio famoso, in questo modo si ottiene indirettamente anche l’audience che normalmente segue quell’ospite. Altri sono storie su un personaggio. O hanno un macro tema che fa da filo conduttore lungo tutte le puntate. Tendenzialmente non c’è musica, perché servirebbe la licenza SIAE APOD

Ma all’atto pratico cosa serve per creare il proprio podcast? A livello di tecnologia l’investimento è minimo: un PC/Mac, un paio di cuffie, un microfono USB a condensatore a cardioide con un ragno per tenerlo fermo, un filtro anti-pop per pulire il suono, software per registrare (Audacity, GarageBand per Mac, Adobe Audition). Dopo la produzione il podcast va caricato su una piattaforma di diffusione. Per i principianti consigliamo Spreaker che ha una certa facilità di utilizzo e integra tanto le funzioni di editing che di hosting, inoltre sarà poi possibile distribuirlo su altre piattaforme. Basta aggiungere poi una breve descrizione ottimizzata lato SEO e dei link, se previsti. È possibile monetizzare in modi diversi: link affiliate, promozioni all’interno del podcast, branded podcast (prodotti dal marketing interno all’azienda o tramite agenzia esterna), ecc. Un modo veloce per iniziare è registrare il testo dei vostri post, così da raggiungere chi non ama leggere lunghi post da mobile. 

Non ultimo, per provare in prima persona, abbiamo preso parte a una puntata speciale di Buzzword a tema “Cult” registrata nello studio radiofonico di Radio Cult e ascoltabile qua.

Cosa state aspettando? Provate anche voi la favolosa esperienza del podcast! 

http://www.simmatonline.com/

Please allow me to introduce myself: lezioni di Personal Branding

Please allow me to introduce myself: lezioni di Personal Branding

Qualche giorno fa, durante una delle mie aule, ho chiesto ai partecipanti di darmi una definizione dell’azienda per la quale lavorano. Sono partiti slogan e, altisonanti metafore, ma in sostanza nessuno mi diceva cosa facesse esattamente quell’organizzazione.

Questo perché alcune aziende oggi sono veramente difficili da definire (leading company, knowledge company, per non parlare di un ever green come consultancy company) e anche perché tendiamo sempre più spesso a “sponsorizzare” un concetto, piuttosto che a renderlo identificativo di un qualcosa.

Di fronte al mio costante scuotere la testa: “mi stai dando un pay-off” – “è una buona idea se facessimo un spot radiofonico” – “si capisce ancor meno di prima cosa fa sta benedette azienda” si sono infiammati leggermente gli animi. Nell’agitazione generale è saltata fuori anche la domanda: “ma perché hai tutta questa necessità di avere una “definizione”?”

Perché definire qualcosa non serve tanto a dargli una forma, a farlo diventare concreto, usabile, ma sicuramente da quel momento in poi è possibile comunicarlo. Ho chiesto allora se sapessero definire un brand più semplice (più o meno): se stessi.

Panico!

In primis, panico da aspettative (“sicuramente vorrà sentirsi dire cose specifiche… è un formatore del resto!”). Poi, panico da wording (“sarà meglio dire furbo o arguto?”). Ed infine, panico da contenuti (“come faccio a dare una definizione di me, essere complesso e articolato, fatto di esteriorità e sostanza?”).

Questa esperienza mi ha permesso, così, di riflettere su due cose importanti: chi siamo e come siamo. Concetti abbastanza complicati se presi così, tout court, ma se analizzati in una specifica strategia di comunicazione, possono dare spunti interessanti sul Personal Branding:

  • Il “Chi sono?” è dato dal cosa faccio (come lavoro, come persona nella società)
  • Il “Come sono?” è spesso legato ad aspetti fisici, dai quali si possono dedurre anche aspetti più intimi e personali (“come capirai, non sono uno sportivo” perché la di là della cinta spuntava un po’ di pancetta)

In ottica strategica basta sintetizzare questi due punti per ottenere una prima definizione di sé? Magari!

Per definire il proprio brand, e di conseguenza comunicarlo, le domande devono essere esplose, rese più articolate. Uno spunto interessante l’ho trovato grazie ad Annamaria Testa, in un suo articolo su Internazionale (link). Il suo racconto è concentrato su questo: “C’è qualcosa – una cosa qualsiasi – che sai fare bene?”

Rispondere a questa domanda serve non solo alla costruzione della consapevolezza di sé (che è una gran bella cosa) ma serve soprattutto a darci elementi per costruire un corretto storytelling di noi stessi. L’elenco di risposte possibili è potenzialmente infinito (almeno nelle categorie di azioni): ad esempio, io so parlare bene con le Persone (attività che presuppone skills relazionali) e al contempo so lavorare bene all’uncinetto (attività che prevede skills tecniche).

Andiamo ora al “Come sono?”.

Questa domanda mi ha fatto riflettere su una cosa specifica: i miei capelli. La mia testa è sempre stata popolata da indomabili e indisciplinati ricci rossi. Da piccola “essere una persona ordinata” (nel senso estetico del termine) mi ossessionava. Poi ad un certo punto, probabilmente per semplice reazione, mi sono trovata a pensare che invece avere una testa popolata da indomabili e indisciplinati ricci rossi…è una figata!

Sono stata probabilmente vittima (positiva) della profezia che si autoavvera, ma il raccontare storie sui miei capelli mi ha concesso di potermi descrivere meglio e di smettere di odiare quell’aggettivo: ordinata!!!

Ecco che con i giusti esempi il Personal Branding diventa concreto e possibile. Un’azione di questo tipo consente di costruire una strategia dietro la comunicazione di fatti, comportamenti, attitudini, caratteristiche. In conclusione, non va dimenticato che il Personal Branding è un processo e come tale ha bisogno di programmazione e aggiornamento continuo.

L’autore dell’articolo, Mara Loccisano (https://www.linkedin.com/in/mara-loccisano-9a510913/), è trainer e coach, amante della comunicazione, con 12 anni di esperienza. Il Personal Branding è uno dei fulcri principali di ricerca e interesse, affiancato da tematiche inerenti il marketing e la vendita.

Di queste e altre sfumature del Personal Branding ne parleremo venerdì 5 aprile alle ore 18.00 durante un evento co-organizzato da UBG e CULT – Community Hub Perugia (https://www.eventbrite.it/e/biglietti-please-allow-me-to-introduce-myself-lezioni-di-personal-branding-58721600889).

Se vuoi restare aggiornato sulle attività di Umbria Business Group iscriviti alla nostra newsletter: https://landing.mailerlite.com/webforms/landing/h0k1p8

Il gioco del “Se fossi…” il tuo nuovo business partner, sarei…

Il gioco del “Se fossi…” il tuo nuovo business partner, sarei…

“Se fossi un animale, sarei…”.

“Se fossi un numero, sarei il…”.

“Se fossi un colore, sarei il…”.

E se fossi il tuo nuovo business partner, chi sarei? Cosa farei?

Ogni volta che ci affidano una nuova sfida lavorativa, iniziamo a pensare al migliore approccio per analizzare tutte le variabili che concorrono al possibile e ipotetico futuro successo. Cominciamo a ragionare sulle caratteristiche dei prodotti e/o servizi che offriamo, sul bisogno che andrebbero a soddisfare nei nostri interlocutori, a quanti altri simili siano presenti nel mercato e alle strategie da mettere in pratica. Nel raggiungere un determinato (ed elevato) volume di dati generati dalle risposte che ci siamo dati, dalle ricerche che abbiamo condotto in parallelo e dalle conseguenti rielaborazioni confrontandole, ci accorgiamo che tanto più astraiamo tanto più allontaniamo la nostra visuale dal principale obiettivo: avviare un processo che ci porti a conoscere i nostri potenziali clienti.

È bene prevedere, pianificare e astrarre in base ai propri obiettivi finali, ma risulta fondamentale che queste nostre attività abbiano come focus i soggetti cui tutte le nostre attività sono rivolte: le Personae.

Che siano i nostri possibili clienti o il nostro pubblico, i nostri colleghi o il nostro capo, le Personae rimangono i protagonisti dei nostri pensieri, dei nostri sogni e, a volte, dei nostri malumori.

Questi protagonisti indiscussi nella definizione del nostro piano, e in particolare in base a questo approccio, ci permettono di semplificare la nostra attività di astrazione e ci riportano ai bisogni fondamentali dell’essere umano, il quale abbiamo deciso di incontrare per vendere il nostro servizio e/o prodotto.

Perché dovrebbero acquistare da me?

A una domanda così semplice non si può che rispondere in maniera molto complessa, come di seguito:

Attualmente, il 57% delle decisioni di acquisto, parlo in particolare dell’ambiente business to business, viene presa in maniera indipendente, senza venire a contatto con un venditore, e allo stesso modo, nel 77% dei casi, un buyer non parla con un venditore prima di aver condotto autonomamente una ricerca online. Consideriamo, ulteriormente, che l’88% dei buyer utilizza i social media per informarsi e che il 74% utilizza LinkedIn. Mi sembra più che chiaro di non avere alcuna chance, neanche quella di mettere in pratica le mie capacità di venditore. Sembra che tutte le mie sicurezze derivate dalle attività di pianificazione siano venute meno dal momento che non so come entrare in contatto con i miei interlocutori.

Cosa posso fare?

Anche questa domanda esige una risposta complessa.

L’attuale contesto di business, e mi riferisco ai piani di digital transformation che hanno coinvolto e stanno coinvolgendo tutti i dipartimenti aziendali, ci obbliga a rivedere il modello tradizionale del processo di vendita. Lo scenario in cui un buyer agisce attualmente, gli permette di accedere autonomamente alle informazioni di cui necessita, offrendogli allo stesso tempo anche le soluzioni più performanti. Per tornare alla domanda “Cosa posso fare?”, ritengo che il minimo che si possa fare sia essere almeno presenti negli spazi online dove le personae si vanno a informare, dove possono conversare e scambiarsi opinioni.

IBM, ultimamente, ha incrementato del 400% le sue vendite a fronte della messa in atto di un piano social media a supporto della forza vendite. Le attività di consulenza online e la collaborazione tra i team nel trovare, filtrare e condividere contenuti digitali rilevanti è stata la chiave di questo sbalorditivo successo.

SAP ha incrementato del 32% il proprio fatturato investendo nello sviluppo delle competenze di social selling del proprio team di vendita. Le attività di social selling permettono di entrare efficacemente in contatto con i prospect e coinvolgere attivamente i clienti.

Come posso essere efficace in questo nuovo contesto e dare inizio a un processo di vendita per cui, poi, saranno utili tutte le mie attività di previsione, pianificazione e astrazione? Sembra strano, ma l’attuale contesto caratterizzato da interazioni online, quindi, virtuali, necessità di estrema concretezza operativa. Infatti, con il mio consiglio di partire dalle personae, propongo di partire dai seguenti presupposti o, meglio, buone premesse:

– facilitare il lavoro quotidiano dei nostri prospect;

– rendere i nostri prospect consapevoli e aggiornati;

– portare i nostri prospect a essere ambasciatori nella materia/settore merceologico oggetto del nostro prodotto/servizio all’interno delle loro organizzazioni.

L’approccio che propongo tiene conto delle abitudini dei nuovi buyer B2B e ha lo scopo di raggiungere una maggiore efficacia nel momento in cui si dispongono delle attività finalizzate alla generazione di nuovi lead. Infatti, oltre alla difficoltà nell’entrare nel processo decisionale di acquisto, descritta sopra, tengo conto della media annua di fornitori che i buyer B2B stessi ricevono annualmente, che si attesta tra i 65 e gli 85. Dato che rende ancora più difficoltosa la nostra impresa di cogliere la loro attenzione.

Tutto considerato, risulta fondamentale costruire una propria identità, ahimé, virtuale, negli spazi dove le personae di nostro interesse cercano informazioni, in particolare mi riferisco al social media LinkedIn, che permette la connessione con loro, anche tramite i gruppi di discussione (che meritano la nostra attenzione). Costruire un’identità basata sugli USP (unique selling point) che contraddistinguono il nostro brand, i nostri servizi e/o prodotti, le nostre caratteristiche personali, come individui e professionisti. Un’identità che si manifesta nella completezza e chiarezza delle informazione che forniamo su noi stessi, la nostra azienda e i servizi/prodotti che offriamo per facilitare il lavoro dei nostri interlocutori. Uscendo da un’atmosfera di vendita, che poco piacevole è per tutti, ed entrando in un livello di comunicazione più elevato, consulenziale (advisory). Per il 40% delle proprie attività in LinkedIn, si consiglia, infatti, la creazione di contenuti originali (prodotti in casa), mirati ad attrarre alla lettura, disegnati sulle esigenze dei buyer, dal taglio divulgativo e, sicuramente, coinvolgente.

Ci tengo a concludere con la definizione di Personal Branding: significa impostare una strategia per individuare o definire i tuoi punti di forza, quello che ti rende unico e differente rispetto ai tuoi concorrenti e comunicare in maniera efficace cosa sai fare, come lo sai fare, quali benefici porti e perché gli altri dovrebbero sceglierti.

L’autore dell’articolo, Omar Schiavoni, oltre ad essere co-fondatore dell’Umbria Business Group, è attualmente Key Account and Client Manager Exams presso British Council. Il tema trattato è stato oggetto di un evento co-organizzato da UBG e PagineSì a Terni il mese scorso: https://www.corrieredelleconomia.it/2018/06/08/al-palasi-per-parlare-di-social-selling-il-14-giugno-preparati-a-incontrare-il-tuo-prossimo-cliente/