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Le sfide dell’Industria 4.0 per lo sviluppo armonico della PMI

Le sfide dell’Industria 4.0 per lo sviluppo armonico della PMI

L’industria 4.0, l’Internet of Things (IoT), l’intelligenza artificiale, il cloud computing e più in generale la digital transformation sono fattori che stanno cambiando enormemente il modo di fare impresa.

Non si tratta dell’implementazione di nuovi sistemi, di nuove tecnologie o di digitalizzare qualche processo ma di un cambiamento radicale che impatta inevitabilmente sul modo di pensare: una rivoluzione dirompente che riguarda le aziende di ogni settore e in ogni fase del proprio Ciclo di Vita. Alla base di questa trasformazione ci sono i dati: la loro raccolta, la loro gestione e la loro analisi (data driven). La sfida è inevitabile, l’impresa non può affrontare questo passaggio epocale se non attraverso l’adozione di modelli manageriali con un cambio di passo in termini culturali e organizzativi che impattano in maniera multidisciplinare su tutta l’azienda. La trasformazione digitale, passa dunque per la creazione di una cultura aziendale che percepisca i dati come una risorsa strategica che alimenta ogni fase del processo decisionale. I livelli di competitività dell’impresa sono tanto più elevati quanto maggiore è il suo grado di flessibilità e adattabilità al contesto in cui opera. La sua capacità di risposta in termini di produttività ed efficienza, è strettamente legata alla capacità di innovare e pianificare le proprie strategie in modo puntuale, analitico attraverso l’innesto di una gestione razionale del dato.

La raccolta, la gestione e l’analisi dei dati sono attività divenute necessarie per lo sviluppo dell’impresa tanto che l’approccio data driven risulta indispensabile per prendere decisioni e creare strategie. Non possiamo più permetterci di snobbare l’enorme mole di dati disponibili basando le politiche aziendali sull’intuito, formulando scelte “di pancia” o andando, come si dice, “a naso”. I processi di business governance, in ogni ambito della vita aziendale, devono essere supportati da un approccio analitico basato sui dati e sull’impiego di adeguati modelli di analisi.

Un approccio manageriale data driven implica una struttura organizzativa all’interno della quale si sviluppino da un lato, le condizioni per favorire una sensibilità verso l’importanza strategica del dato, e dall’altro, si integrino ai processi operativi già informatizzati, quelli di Data Quality, Data Integration e Data Governance. L’attenzione va riposta all’intero ciclo di vita del dato: deve essere affidabile, accurato e pronto per gli scopi previsti. La qualità dei dati è un elemento imprescindibile per aumentarne l’efficacia nei processi aziendali.

L’integrazione dei dati permette di combinare e unire informazioni provenienti da sistemi diversi, ottenendo una vista di sintesi (sistemica) dei fenomeni analizzati immediata e coerente con le esigenze aziendali. È come realizzare un puzzle a partire da singoli pezzi provenienti da scatole diverse. Tutti i dati rilevanti e strategici devono essere gestiti formalmente a livello enterprise: le strategie di gestione dei dati devono allinearsi alle strategie aziendali coinvolgendo risorse, processi e tecnologie di impiego del dato.

Il patrimonio informativo aziendale deve essere valorizzato trasformandolo in un vero e proprio asset strutturale. L’implementazione di logiche di processo di gestione del dato, in grado di canalizzare correttamente i flussi informativi, le adeguate competenze di analisi e impiego dei dati, unitamente ad opportuni strumenti tecnologici rappresentano il mix di componenti che occorre gradualmente introdurre all’interno dell’impresa.

Applicare il Data Driven Management, in sintesi, significa mettere l’impresa nelle condizioni di aprirsi a nuove opportunità di business, accogliendo strumenti e metodologie operative in grado di sviluppare nuovi prodotti e nuovi servizi, di migliorare l’efficienza operativa ottimizzando i costi e il processo decisionale attraverso l’impiego di modelli di analytics. Grazie al supporto di avanzati modelli di analisi, l’impresa è in grado di scoprire le tendenze del mercato, conoscere in anticipo trend e decifrare il comportamento dei consumatori. Segmentazione analitica della domanda, definizioni di campagne di marketing mirate, strategie di up selling e cross selling sono solo alcune delle possibilità innescate dai processi di data analysis.

La cultura del data driven management resta di fatto l’elemento portante del processo di cambiamento delle imprese, senza il quale difficilmente si riuscirà ad innescare processi di innovazione tali da garantire agilità e flessibilità di business necessari per rimanere competitivi negli attuali contesti di mercato. Le tecnologie sono abilitanti, i dati sono la materia prima e i modelli di analisi sono lo strumento, ma è alle persone che è affidata l’azione: se essa non è guidata dalle analisi allora nessun dato è in grado di condurre ad un beneficio, nonostante le avanzate e innovative tecnologie disponibili.

In definitiva, solo attraverso decisioni basate sui dati, possono raggiungersi in modo continuativo obiettivi di crescita.

Articolo di Fabrizio Galeazzi e Francesco Stefani

Spunti per dare inizio al tuo processo di internazionalizzazione

Spunti per dare inizio al tuo processo di internazionalizzazione

In Economia e in relazione ai mercati internazionali, la globalizzazione, termine reso popolare dall’economista Theodore Levitt, descrive un processo di omologazione e integrazione che, come effetto, ha la creazione di legami di interdipendenza tra gli attori in gioco nel contesto internazionale.

L’effetto che il processo di globalizzazione ha sortito nell’epoca attuale, è la standardizzazione delle modalità produttive e strategiche e, quindi, dei prodotti/servizi, basti pensare all’ISO, a Six Sigma o al Metodo Toyota. Questo fenomeno non appare più nuovo ai nostri occhi, essendo da tempo parte della nostra quotidianità.

Oggi, e da diverso tempo, ogni singola azienda si trova a competere, nella corsa al mantenimento e all’acquisizione dei clienti, con una miriade di realtà economiche, geograficamente e culturalmente vicine o lontane, fisicamente accessibili (brick-and-mortar) o nel Cloud (digital).

Di qui la necessità impellente di internazionalizzare la propria azienda per far fronte alla variegata concorrenza e proporre i propri prodotti/servizi all’esterno dei confini nazionali.

Possiamo dire che porre in essere un processo di internazionalizzazione della propria azienda sia la naturale risposta alla globalizzazione la quale, in altro modo, vedrebbe l’azienda stessa consumarsi sotto i suoi colpi e subire la maggiore competitività e influenza dei player internazionali.

I dati del Ministero dello Sviluppo Economico mostrano che nel periodo gennaio-novembre 2016 l’export italiano ha raggiunto il valore di 380.772 miliardi di euro, una crescita del +0,7% rispetto all’anno precedente. Solo nel 2016 sono state 200.240 le imprese italiane che hanno avviato o consolidato la loro presenza nei mercati UE ed extra-UE. Dall’altro lato vediamo invece il preoccupante dato che mostra 390 aziende chiudere ogni giorno per la saturazione del mercato interno (ca. 142.000 in un anno).
Da uno studio condotto da UPS, infatti, emerge che gli imprenditori, specialmente quelli a capo di Piccole e Medie Imprese che hanno deciso di affacciarsi ai mercati esteri, hanno registrato una crescita dei ricavi che ha permesso loro di portare avanti il proprio business.

Risulta che il nostro sbocco economico preferito sia l’Unione Europea (Germania e Francia, in particolare), mentre tra i mercati extra-UE spicchino gli Stati Uniti.

Ricerche recenti, tra cui il rapporto dell’Osservatorio PMI di Global Strategy, hanno sottolineato come, tra le PMI che hanno riportato risultati concreti, ci siano soprattutto quelle che hanno mirato all’innovazione e all’internazionalizzazione. Negli anni della crisi 2010-2014 le imprese che hanno scommesso su innovazione e internazionalizzazione sono cresciute a ritmi superiori rispetto alle concorrenti che non hanno seguito il medesimo percorso.

Dallo stesso studio di UPS citato prima emerge inoltre che, nonostante il guizzo positivo dell’espansione verso l’estero, molte delle imprese presentano ancora alcune lacune penalizzanti:

  1. scarsa conoscenza delle nuove tecnologie e degli strumenti disponibili;
  2. scarsa conoscenza delle lingue e delle culture straniere;
  3. scarsa conoscenza del proprio prodotto e delle potenzialità della propria azienda;
  4. assenza, a volte totale, di strategie.

Un check-up approfondito, nel momento in cui si decide di dare avvio al proprio processo di internazionalizzazione, è alla base della conoscenza delle proprie capacità e potenzialità imprenditoriali e di prodotto/servizio, al fine di selezionare il mercato più adatto al quale rivolgersi.

Una soluzione che pochi valutano è quella offerta dal web, in particolare, dagli strumenti di e-commerce che permettono di testare l’approdo in mercati poco conosciuti. L’e-commerce consente di valutare sin da subito la capacità di assorbimento potenziale dei mercati selezionati e la risposta dei consumatori al prodotto/servizio proposto.

La competenza linguistica è sicuramente la chiave di accesso ai mercati esteri nel processo di internazionalizzazione (abbreviato di consueto a i18n in questo ambito) della propria impresa. Avere nel proprio organico figure professionali, con alta competenza linguistica e conoscenza della cultura del paese a cui ci si rivolge, è fondamentale per creare e consolidare il rapporto con i nuovi clienti. Rafforza la fiducia e trasmette serietà a chi osserva dall’esterno, ancor di più se osserva dall’estero.

L’ultimo punto, che sicuramente tocca nel profondo gli imprenditori italiani, è la certificazione e tracciabilità del proprio prodotto (si veda su tutti lo standard ISO 22005:2008, sulla rintracciabilità dei sistemi alimentari). Il Made in Italy è stato sempre un brand potente che ha permesso alla nostra nazione un vantaggio nelle esportazioni. I nostri prodotti, oggi, vengono copiati e la loro provenienza contraffatta in maniera spesso grossolana (il c.d. “Italian sounding“), con lo stupore degli imprenditori italiani che scoprono la difficile riconoscibilità dagli originali a un occhio straniero. Quindi, certificare e tracciare il proprio prodotto, non solo permette di salvare dalla contraffazione, ma garantisce ed evidenzia la serietà della propria azienda.

Questo breve articolo si propone di dare uno spunto ai lettori per iniziare un’analisi del proprio contesto lavorativo e le possibili evoluzioni che il porre in essere un processo di internazionalizzazione potrebbe apportare in termini funzionali ed economici.

Buon lavoro!

Articolo di Lucia Fioravanti e Omar Schiavoni

Design thinking per modellare il futuro senza temere il cambiamento

Design thinking per modellare il futuro senza temere il cambiamento

Pubblichiamo con piacere un guest post di Puntodock, che terrà un workshop sul Design Thinking per noi giovedì 23 marzo.

Il 70 % dei membri dello staff di grandi aziende italiane dichiara di ottenere risultati migliori quando lavora in team.

L’ 80 % dei dirigenti di grandi aziende internazionali sostengono che le due principali linee di sviluppo per il management futuro saranno design organizzativo per ripensare le imprese a misura di team di lavoro, e design thinking, per riprogettare il lavoro a misura di team collaborativi.

Stando a questi dati e a quanto ci sentiamo ripetere da anni a più voci e a più riprese, possiamo affermare senza dubbio che la contemporaneità impone a tutti  di essere attenti alle novità e di sapersi costantemente adattare al cambiamento.

Perché allora la maggior parte di noi ha così paura di ciò che è nuovo?
Ce lo spiega Roger L. Martin in un articolo dal titolo Use design thinking to build commitment to a new idea il quale sostiene che la cultura moderna ci impone di credere a qualcosa solo quando siamo razionalmente convinti dalla sua logica ed abbiamo, in aggiunta, dati che ci diano evidenze empiriche.

Le nuove idee  però, per definizione , non hanno dati che ne confermino la validità. Del resto, anche se ci fosse disponibilità di dati, poco potremmo dire su come andranno le cose: le prove analitiche tengono in grande considerazione il passato, ma danno poca o nulla attenzione al futuro il quale, proprio come detto sopra, sarà verosimilmente molto diverso dal passato.
Questa predilezione verso l’analisi del passato spesso si trasforma in un atteggiamento conservativo che sceglie di “sfruttare” quello che ha dato prova di funzionare piuttosto che “esplorare” quello che in futuro funzionerà.
Quindi, non potendo fare affidamento sui dati, per convincere le nuove idee dobbiamo allora contare su altri due elementi: la logica e le emozioni.
Citando il caso studio dello sviluppo di un nuovo prodotto da parte di un’azienda del settore finanziario, Martin descrive come il design thinking fornisca gli strumenti giusti per sviluppare un progetto radicalmente nuovo che sia in grado di convincere chi è chiamato ad attuarlo.

La mancanza di dati sul prodotto, infatti, può essere sopperita da un percorso logico che parte da una solida comprensione dei bisogni e delle preferenze del cliente: le tecniche del design ci consentono infatti di adottare un approccio collaborativo, customer-centric e iterativo, immaginando le storie degli utilizzatori per prototipare, testare e migliorare versioni via via più evolute del prodotto.

In contemporanea i nuovi prodotti devono essere anche “raccontati” dentro all’organizzazione, allo scopo di convincere e motivare le persone: chi è chiamato a sviluppare qualcosa di nuovo lo fa meglio se crede nel progetto e nei vantaggi che questo sarà in grado di produrre.
Un buon modo per raggiungere questo risultato è quello di creare un contatto diretto tra chi si occupa dello sviluppo e gli utenti che vengono coinvolti nella realizzazione dei prototipi di modo che i primi possano percepire le reazioni che questi hanno quando entrano in contatto con il loro lavoro.

Il successo nel convincere lo staff a credere nelle nuove idee”, conclude il manager protagonista del caso studio, “viene da una combinazione rigorosa delle informazioni provenienti dai piani di business con quelle provenienti dai prototipi”. In questo modo, grazie ai prototipi e con l’avanzare dei test, l’organizzazione è in grado di collezionare nuovi dati che le saranno utili per prevedere come si comporteranno i clienti quando il prodotto andrà sul mercato e a non avere paura di fare un salto nel buio (che poi tanto buio non sarà più).
Andiamo dunque verso un futuro in cui le aziende saranno “network di network” nei quali il valore degli individui sarà sempre di più funzione della loro capacità di interagire e di lavorare in simbiosi con gli altri. Bisognerà costruire squadre perché non basteranno più un insieme di talenti slegati tra loro. Per questo, già a partire da oggi, diventa più che mai necessario trasferire ai team di lavoro competenze trasversali e metodologie necessarie alla collaborazione. Ma non basta questo.

Perché non c’è collaborazione senza organizzazione, e non ci sono organizzazioni senza persone. Nessuno, infatti, conosce l’azienda meglio di chi ne fa parte. Collaborare allora significherà sempre più mettere in condivisione le informazioni, analizzare la realtà e progettare il futuro.

#UBG Social Media Analysis

#UBG Social Media Analysis

Nell’ultimo mese abbiamo analizzato l’andamento dei nostri canali social, per capire qual è il nostro pubblico e cosa si aspetta da noi. Ne sono emerse due analisi profondamente diverse come impostazione ma che ci hanno sorpreso con risultati niente affatto scontati.

Il sondaggio sull’uso dei social media, rivolto ai membri del gruppo Linkedin, conferma che la maggior parte degli utenti accede ai social media tramite smartphone (80%). E, se fino a qualche tempo fa i social media erano dedicati esclusivamente alla vita privata, con una netta separazione da quella lavorativa, oggi il confine tende a scomparire. Non stupisce quindi che per la maggior parte dei professionisti, i social media siano anche la fonte principale delle informazioni (con tanta pace della certezza delle fonti!).

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Un modello tedesco per l’Industria 4.0

Un modello tedesco per l’Industria 4.0

Un articolo uscito in questi giorni sulla testata teutonica Welt intitolato “Das Phantom vom „Ende der Arbeit““, ovvero “Lo spettro della fine del lavoro” (in tedesco “Phantom” indica sia lo spettro che il parto di fantasia, una sfumatura che si perde in italiano;NdR) richiama l’attenzione su di un tema attuale e sentito: automatizzazione e digitalizzazione del lavoro spaventano i dipendenti e liberi professionisti nei paesi avanzati e la Germania non è immune, per questo la ministra del Lavoro Andrea Nahles ha avanzato un suo piano per la salvaguardia dei lavoratori senza perdere le opportunità aperte dall’Industria 4.0. Il piano in questione prevede di agevolare il telelavoro, un diritto di ritorno al full time per i lavoratori che si siano collocati in part-time e la copertura di disoccupazione ed ente pensionistico per gli autonomi. Questo oltre ad agevolare il lifelong learning, ovvero la formazione permanente, una pratica che diverrà comune sino ad essere un requisito di fatto indispensabile per restare nel mondo del lavoro.

Un nuovo decreto legge temporaneo sulla libera professione renderebbe gli orari più flessibili di quanto siano oggi. Alle parti in causa verrebbe concesso di cercare un accordo per variazioni adeguate rispetto alla normativa attualmente vigente nell’arco di una fase sperimentale di due anni.

L’economia ha reagito negativamente alle proposte della ministra. Il presidente dell’associazione dei datori di lavoro Ingo Kramer ha ribattuto: «Non possiamo rimandare alle calende greche la modernizzazione di normative obsolete». Bitkom, l’associazione per l’economia digitale lamenta che i paletti posti per i cambiamenti all’orario sono legati a condizioni troppo stringenti. In effetti nell’arco di vent’anni coloro che lavorano fuori dagli orari e giorni tradizionali sono saliti al 25% per la sera e il sabato, quasi il 10% fanno turni di notte e il 15% lavora la domenica. Così come sono cresciute forme di lavoro più flessibili tipo i minijob, autonomi e impieghi temporanei. Ma è pur vero che contemporaneamente sono salite le occupazioni a tempo pieno indeterminato, raggiungendo un tetto storico di 36 milioni di individui.

La Nahles è ottimista a dispetto di critiche e paure, cita lo studio commissionato dal Centro per la Ricerca Economica Europea (ZEW) secondo cui solo il 12% dei lavori odierni hanno un profilo tale che li metta a rischio automazione.

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) infine butta acqua sul fuoco degli allarmisti, per quanto sia vero che il potenziale di automazione nei paesi avanzati sia un po’ sopra la media, nove lavori locali su dieci non sono interamente rimpiazzabili, verranno invece evoluti in futuro.

Fabrizio Bartoloni

Quando si parla di business e innovazione…

Quando si parla di business e innovazione…

…spesso si dimentica che anche l’agricoltura può essere una eccellenza. Sabato scorso siamo andati a visitare l’azienda agricola Leonardi. Situata sulle colline tra Narni e Terni è specializzata nella produzione di olio extravergine di oliva DOP e ortofrutta di stagione e produce rispettando l’ambiente e il consumatore senza l’utilizzo di tosanitari chimici. La vendita diretta avviene su ordinazione consegnando direttamente a domicilio il prodotto raccolto nella stessa giornata. Azienda moderna, accreditata al circuito CAMPAGNA AMICA DI COLDIRETTI ha scelto la multifunzionalità come strategia aziendale realizzando un laboratorio di trasformazione che dalla prossima estate sarà operativo producendo conserve, passate, confetture, sottolio e salse di diverso tipo. Ringraziamo Federico Leonardi e sua moglie per la squisita ospitalità e per averci raccontato i valori alla base delle scelte produttive e vi invitiamo a provare i loro prodotti. Maggiori info alla pagina Facebook: https://www.facebook.com/azienda.leonardi/